Washington Rossa

Antonio Pavolini
9 min readJan 22, 2016

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Il 15 febbraio 2014 una meteora di grosse dimensioni esplose sul cielo di Chelyabinsk, nella Siberia Occidentale. Pochi giorni dopo, l’8 Marzo, Evgeny Kuznetsov, giovane attaccante del Traktor, la squadra locale di hockey su ghiaccio, decise di firmare un contratto di tre anni per i Washington Capitals e di trasferirsi nella capitale degli Stati Uniti per militare nella National Hockey League.

A quasi due anni di distanza forse è ancora presto per capire se anche Kuznetsov si sia rivelata o meno una seconda, rumorosa meteora. Ma per capire bene tutta la storia dobbiamo fare un passo indietro più lungo, fino alla primavera del 1989. Il muro di Berlino era ancora in piedi, e nessun hockeista russo (anzi, sovietico) aveva mai lasciato il Paese per fuggire negli Stati Uniti, nonostante molti sportivi dell’Europa Socialista fossero già stati defectors negli anni ’70 e ‘80.

L’URSS Hockey

La ragione della maggiore “fedeltà” degli atleti dell’hockey rispetto alle altre discipline risiedeva nel fatto che questi signori, nell’Unione Sovietica di Breznev, Cernienko e Andropov, erano veri e propri privilegiati. Il regime trattava loro e le loro famiglie coi guanti bianchi. Di conseguenza, nonostante le periodiche lusinghe delle squadre nordamericane, pronte a ricoprirli di dollari (soprattutto dollari canadesi), stelle affermate come Fetisov, Larionov, Makarov preferivano starsene comodamente a casa. E non solo perché potevano contare su tutti i beni di consumo dello stile di vita occidentale, ma anche a causa di una cultura e un orgoglio nazionale molto radicati, al di là di qualsiasi implicazione ideologica o visione del mondo. Ma proprio in quella primavera le cose stavano per cambiare.

Le fughe

Tutto cominciò con Alexander Mogilny, un ventenne di belle speranze, pronto a prendere il posto dei senatori di cui sopra, che però non aveva intenzione di barattare la propria libertà coi privilegi riservati agli alti papaveri del partito. Così, dopo aver partecipato nel maggio 1989 all’ennesimo trionfo dell’URSS ai mondiali in terra svedese, fu dato per disperso all’aeroporto di Stoccolma, per ricomparire poco dopo negli Stati Uniti, con in tasca tutti i documenti in regola e la prima selezione ai draft ad opera dei Buffalo Sabres, dove debuttò la settimana dopo.

Questo illustre — e a suo modo, scandaloso in patria — precedente diede inevitabilmente la stura alle fughe di molti altri giocatori più importanti. Ne conseguì un dorato periodo di stagioni indimenticabili alla NHL, dove già scintillavano mostri sacri come Wayne Gretzky e Mario Lemieux. I russi, come di lì a poco fu legittimo chiamarli, fecero danni dappertutto, soprattutto a Detroit, dove stelle come Fetisov e Fedorov risultarono decisive per la conquista di ben tre Stanley Cup.

Vjaceslav Fetisov, ministro dello sport sotto il governo Putin.

Qualche russo di minor fama, come Sergei Gonchar, arrivò anche a Washington, ma senza fare sfracelli. La capitale restava un territorio inesplorato per i russi. Ci sono due spiegazioni per questo. La prima è che si trattava ancora della capitale in prima linea di una guerra appena conclusa che — per quanto fredda — ebbe i suoi morti da entrambe le parti, come la serie di Netflix The Americans ci racconta molto bene oggi, a trent’anni di distanza.

Erano ancora vicini gli anni in cui la capitale brulicava di spie, doppiogiochisti e triplogiochisti, e anche se l’FBI e la CIA non erano esattamente il colabrodo descritto in quella sceneggiatura non era comunque il caso di distrarsi, tutte le volte che un autoproclamato ex-comunista metteva piede su Pennsylvania Avenue. Comprensibile quindi, l’imbarazzo di fronte a giocatori nati, cresciuti e tecnicamente formati secondo le regole — piuttosto militaresche — di un avversario storico.

Ma questa è solo la spiegazione rispettabile, di facciata. L’altra — quella più onesta, che gli stessi tifosi di Washington sono pronti a riconoscere, è che quella città non ha mai avuto una grande tradizione nell’hockey su ghiaccio. La squadra locale, con poca fantasia denominata “i Capitals”, o meglio “i Caps”, fu fondata solo nel 1974 e non era mai riuscita a raggiungere la finale per la Stanley Cup. Giocava ancora nell’anonimo Capital Center, lontano dal centro della città, una specie di non-luogo tondeggiante ubicato in un triste sobborgo del Maryland. Nessuna sorpresa che non trascinasse l’entusiasmo dei tifosi, già abbastanza freddi di fronte alle anonime stagioni dei “ragazzi in rosso”. Il tutto proprio negli anni in cui nel football americano i Redskins di Jay Shroeder, Theismann e Rypien portavano a casa tre Superbowl.

In realtà, a volte, i Capital ai playoff ci arrivavano anche, ma finivano per essere spazzati fuori abbastanza in fretta dai club più prestigiosi, che prendevano proprio dall’est i giocatori migliori. Questo andazzo si trascinò fino al 1998, quando accaddero due cose abbastanza importanti. La prima fu che la squadra decise di traslocare nel nuovissimo MCI Center (oggi Verizon Center), in pieno centro: un palazzo completamente illuminato di rosso, che sembra segnare l’entrata a Chinatown.

La seconda novità fu la straordinaria stagione di Peter Bondra, lo slovacco che con 52 gol trascinò i Caps fino alla finalissima contro gli imbattibili Detroit Red Wings. La squadra riesce comunque a guadagnarsi il titolo di “Eastern Conference Champion”, rappresentato da uno stendardo celeste penzolante dal tetto dello stadio.

The Great Eight

Naturalmente quello stendardo rimase anche lì a ricordare che forse la Stanley Cup Washington non la vincerà mai.

E comunque, come fanno le formiche, si può sempre lavorare per migliorare. Dopo qualche altro anno con la guerra fredda ormai alle spalle, ai draft del 2004 i Caps scelsero l’astro nascente dell’hockey russo, l’enigmatico attaccante Alexander Oveckhin. Il suo debutto slittò al 2005, a causa del grande sciopero dei giocatori che costò alla NHL un anno di stop e una perdita secca di oltre 3 miliardi di dollari.

Oveckhin non fece subito la differenza, ma fu abbastanza chiaro che, in prospettiva, i Caps avrebbero potuto contare su una stella di prima grandezza, una vera e propria macchina da gol. Senza spoilerare il finale, possiamo dire che attualmente, già trentenne, ha superato la barriera dei 500 goal nella NHL, quello che nel calcio, per intenderci, potrebbe essere considerato il limite dei 200.

Fu dalla seconda stagione che “The Great Eight” (l’8 è il numero della sua casacca) iniziò a far capire cosa avrebbe fatto da grande: segnare, segnare, segnare. Non era simpaticissimo: passava poco il disco ai compagni, quasi niente. Una caratteristica che nell’hockey non piace molto, né ai tifosi, né a chi pattina vicino al lui. Anche perché la pista è piccola, ci sono solo 5 giocatori di movimento, e molto spesso il passaggio è l’opzione migliore. Ma lui non voleva saperne. Specialmente nella situazione classica del power play, la superiorità numerica, si piazzava regolarmente a sinistra della porta avversaria, nella sua posizione di winger, guadagnando quel mezzo metro di libertà e letteralmente pretendendo il disco. Quando gli arrivava, per un breve attimo, il puck non lo vedevi più. Solo dopo, dalla luce rossa, capivi se era finito in porta, e ci finiva spesso.

Era il celebre “Ovie-one-timer”, il tiro più fulminante di sempre, che ancora oggi abbatte portieri, pali, avversari, a volte mandandoli in infermeria. Oveckhin non è stato molto amato in quegli anni, soprattutto dai tifosi nemici. Quando a New York poggia il pattino sul rink del Madison Square Garden parte immancabile il boato “O-Vie-Sucks! O-Vie-Sucks!”.

Ovechkin ha classe, è agile, veloce. Ma è anche grosso, molto grosso. Quindi tutte le marmellate di uomini alla balaustra sono sue, e sue sono anche le grandi risse, o almeno quelle che non prende in carico il più agitato dei compagni, Wilson, il “bello” della squadra.

Per i Caps è stato un’affare anche dal punto di vista promozionale. Con Oveckhin lo spettacolo è assicurato, una specie di western con ripieno di talento. Gol, colpi proibiti, risse, numeri d’alta scuola hanno reso difficile procurarsi i biglietti per le partite in casa.

Ovechkin è una sorta di monumento, il nuovo allenatore canadese, Barry Trotz, sembra avergli messo la testa a posto. Adesso sembra quasi un vecchio saggio, e gioca molto più per la squadra. Fa anche da chioccia al giovane compatriota appena arrivato dalla steppa, Evgeny Kuznetsov, quello della meteora di Chelyabinsk. E nei sussulti di egoismo può sempre contare su Nickolas Backstrom, il compagno di linea ideale, quello che Giampiero Galeazzi chiamerebbe “un tacchino freddo”, che gli passa sempre — e intendo sempre — il disco. Non a caso è anche lui si sta avvicinando a quota 500: assist, però. E se spulciate gli archivi, scoprirete che c’è persino qualche assist a porta vuota. Quello che Ovechkin non è riuscito a cambiare è stata l’inerzia dei risultati, gli stessi fino al 2014. I Caps non sono ancora riusciti ad andare oltre i quarti di Conference.

La stella di Kuzie

Nelle ultime fasi della scorsa stagione, col resto della squadra che iniziava a sentire l’acido lattico nei polpacci, inizia a brillare la stella di Kuznetsov. Nelle prime sue apparizioni, nei pochi minuti passati sul ghiaccio, sibila elegante in mezzo ai bestioni nerboruti che lo assediano in forecheck, infinitamente più lenti, soprattutto di riflessi, rispetto a lui. Gli osservatori dell’All-Star Game iniziano prendere nota. Nel giro di poche settimane è il dominatore assoluto della seconda linea. Nella prima è chiuso dall’inossidabile duo Ovechkin-Backstrom, che continua a macinare assist e gol. Ma ha ottimi compagni di linea anche quando tocca a lui: il fortissimo Marcus Johansson e da quest’anno anche l’esperto Justin Williams, uno che sa come si vince una Stanley Cup.

Ma Kuzie , come lo chiamano con affetto i tifosi del Verizon Center, è già nel terzo millennio di questo sport in continua evoluzione. Segna alcuni gol memorabilii già ai playoff, regalando rari momenti di gloria a un pubblico che ormai viene a vedere soprattutto lui.

Nella NHL quello di capire prima dove andrà a finire il disco è un requisito richiesto a qualsiasi attaccante determinato a conservare il posto in squadra. Ma Kutzetsov non solo si fa trovare al posto giusto al momento giusto: crea praticamente da solo le situazioni di gioco in cui si troveranno nella posizione ideale sia lui, sia i compagni. Il difensore John Carlson, che lo vede partire da dietro, qualche settimana fa ha detto: «Per gli avversari è una minaccia mortale, una sorta di sorpresa costante. Salta fuori all’improvviso, è veloce ma si fa sentire anche fisicamente, e non lo conoscono ancora abbastanza».

Trotz voleva un giocatore che facesse i gol, come Ovechkin, ma che passasse anche parecchio. E al 12 gennaio 2015 i numeri parlano chiaro: con 15 gol e 33 assist è, anche statisticamente, il leader della squadra

I migliori Caps di sempre

I Wasghinton Caps di quest’anno hanno battuto ogni record della propria storia a metà stagione: sono in testa alla lega e sono considerati una delle principali candidate alla Stanley Cup. Al momento i Caps sono a 35 vittorie, 8 sconfitte, 3 sconfitte in OT.

Il merito non è solo di Kuzie. Oltre a Williams, l’altro innesto della offseason, anche il fortissimo attaccante T.J.Oshie, acquistato in estate da St. Louis, è stato importante fin dall’inizio. Ma anche consolidati beniamini dei tifosi come Jason Chimera e Jay Beagle, che mai come quest’anno hanno capito di poter arrivare lontano, hanno tirato fuori il meglio del loro repertorio. Per non parlare della difesa, che negli ultimi mesi ha eretto davanti a Holtby un muro quasi insormontabile, il reparto più invidiato dalle squadre più accreditate tra le rivali, a cominciare dagli spettacolari ma penetrabili Dallas Stars.

I Caps possono anche schierare uno dei portieri più forti della lega, Braden Holtby, un energumeno barbuto che pesa esattamente un quintale. Qualcuno dice che se stesse fermo davanti alla porta sarebbe anche meglio, ma in realtà è una specie di grosso gattone, che afferra il puck a zampate anche nelle situazioni e dalle angolazioni più impensabili. “Glove save by Holtby!” è una specie di ritornello del più celebre telecronista locale, Joe Beninati, di Comcast Sports Network.

I fans, letteralmente, adorano Braiden: chi non segue questo sport forse non sa che il portiere non conta, come qualcuno dice, la metà della squadra, ma molto, molto di più. In ogni partita gli avversari scagliano contro di lui, in media, una trentina di tiri. Se sei bravo, li fermi quasi tutti, e probabilmente vinci la partita. Se sei appena meno bravo, ne fai passare uno su dieci, e hai fatto perdere la tua squadra. Holtby li prende sempre quasi tutti, a volte proprio tutti. La scorsa stagione, praticamente da solo, ha trascinato la squadra al secondo turno di playoff, dove sono stati eliminati dei rivali di sempre, i New York Rangers. In circostanze, tra l’altro, abbastanza scabrose: erano arrivati a pochi secondi da vincere la serie, prima di subire il pareggio fatale in gara 6.

Sarà ancora una lunga stagione per i Capitals e per Evgeny Kuznetsov, e la sensazione è che gli avversari più temibili siano loro stessi. La paura di vincere, l’inesperienza ad altissimi livelli gioca sempre brutti scherzi. E lo vedremo bene ai playoff, dove la scarsa abitudine a frequentare il salotto buono può farti fare figuracce memorabili. Più è alta l’aspettativa, più forte è la tensione, e più sarà facile capire se The Great Eight riuscirà finalmente ad alzare la coppa più importante, in quella che per lui potrebbe essere una delle ultime occasioni per farlo. Per Kuzie, invece, potrebbero essercene altre.

Originally published at www.ultimouomo.com on January 22, 2016.

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